
Giulio Chinappi
Sotto la guida del Partito Comunista d'India (Marxista), il Kèrala ha annunciato di aver eradicato la povertà estrema, primo Stato indiano a riuscirci. Un risultato costruito su decenni di politiche socialiste che, seppur accompagnato da interrogativi metodologici, potrebbe rappresentare un modello per il resto del Paese.
L'annuncio del Primo ministro del Kèrala Pinarayi Vijayan, il 1° novembre 2025, secondo cui lo Stato sarebbe oramai "libero dalla povertà estrema", rappresenta un passaggio politico e simbolico di rilievo per l'India e per il dibattito globale sulle vie d'uscita dalla miseria. Questa dichiarazione, sostenuta dall'Extreme Poverty Eradication Project (EPEP) avviato nel 2021, arriva in un Paese che, pur avendo ridotto drasticamente l'incidenza della povertà estrema negli ultimi anni, continua a ospitare il più alto numero assoluto di poveri al mondo. Secondo le stime riconosciute anche dalla Banca Mondiale, la quota di popolazione indiana sotto la soglia internazionale di povertà estrema è scesa attorno al 2,3% nel 2022-2023, rispetto a oltre il 16% un decennio prima, ma circa 75 milioni di persone restano in condizioni di deprivazione severa. In questo contesto, il Kèrala si propone come eccezione: stiamo infatti parlando dello Stato con il più basso livello di povertà multidimensionale del paese, ed il primo a rivendicare la completa eliminazione della povertà estrema.
Per comprendere la portata dell'EPEP è necessario collocarlo nella lunga durata del "modello Kèrala", costruito da decenni di egemonia politico-culturale delle forze di sinistra e, in particolare, del Partito Comunista d'India (Marxista) (Communist Party of India (Marxist), CPI(M)), e reso possibile dalla struttura federale dell'India, che lascia ampio margine di manovra ai governi dei singoli Stati. A partire dagli anni Sessanta, le riforme agrarie hanno colpito il latifondo e ridotto il potere delle élite terriere, redistribuendo la terra e fornendo una base materiale a larghi settori di contadini poveri. A questo si è aggiunto un investimento sistematico in alfabetizzazione, sanità di base, istruzione pubblica e infrastrutture sociali, accompagnato da un forte decentramento amministrativo e dal rafforzamento degli enti locali. Ne è derivato un profilo socio-demografico unico nel contesto indiano: tassi di alfabetizzazione prossimi alla totalità della popolazione adulta, indicatori sanitari comparabili con molti Paesi a medio reddito avanzato, aspettativa di vita più alta della media nazionale, un robusto sistema di distribuzione pubblica del cibo, e un radicato tessuto organizzativo comunitario. Questi elementi hanno anticipato di decenni la retorica globale sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile, configurando un modello di welfare subnazionale che combina mobilitazione politica, diritti sociali e partecipazione di massa.
L'EPEP, dunque, non nasce dal nulla, ma come estensione mirata di questa traiettoria. Sulla base dei dati disponibili, tra il 2021 e il 2025 le autorità locali, in collaborazione con reti come Kudumbashree, lavoratrici sanitarie di comunità e organismi di auto-governo dei villaggi, hanno condotto un censimento capillare delle famiglie "invisibili" ai registri ordinari, identificando circa 64.006 nuclei (poco più di 103.000 persone) in condizioni di deprivazione estrema. È importante sottolineare che i criteri adottati per questa designazione non si limitano al reddito monetario, ma combinano aspetti quali alimentazione, salute, alloggio, reddito, accesso ai documenti, vulnerabilità specifiche (anziani soli, persone con disabilità, nuclei colpiti da malattie gravi, famiglie dalit ("introccabili") e adivasi (popoli tribali) escluse dai benefici esistenti, donne sole con minori, persone LGBTQ+ marginalizzate). Per ciascuna famiglia è stato elaborato un micro-piano personalizzato: assegnazione o regolarizzazione dei documenti di identità, inclusione in schemi di razionamento sovvenzionato, accesso a pensioni sociali, copertura sanitaria, sostegno abitativo tramite, piccoli prestiti per lo sviluppo di attività autonome, servizi di assistenza domiciliare e palliativa.
Il tratto distintivo del progetto è la natura partecipativa e decentrata dello stesso. Non una campagna puramente burocratica calata dall'alto, ma un processo che passa attraverso assemblee di villaggio e ward sabhas (assemblea di circoscrizione), convalidato a livello di panchayat (governo rurale su tre livelli). Questo meccanismo combina capacità statale e controllo sociale diffuso, tipico della tradizione politica del Kèrala, trasformando la lotta alla povertà in esercizio collettivo di pianificazione democratica. La scelta di utilizzare come "infrastruttura di implementazione" una rete di organizzazioni popolari, in larga parte femminili, sindacali e di base, esprime una concezione della povertà estrema come questione politica e non caritativa, coerente con l'impianto ideologico marxista del CPI(M).
Il confronto con il resto dell'India evidenzia la portata di questo risultato. Secondo l'Indice di povertà multidimensionale nazionale elaborato da NITI Aayog, nella prima metà degli anni 2020 il tasso di povertà multidimensionale dell'India era ancora superiore all'11%, con sacche profonde di deprivazione in stati come Bihar, Uttar Pradesh, Jharkhand e Madhya Pradesh, mentre il Kèrala si collocava sin da allora sotto l'1%, in larga misura già prossimo all'azzeramento.
Mentre il Kèrala celebra l'aver eradicato la povertà assoluta, nelle regioni settentrionali e centrali dell'India permangono livelli allarmanti di malnutrizione infantile, esclusione scolastica, precarietà abitativa e accesso diseguale a servizi sanitari, in un contesto segnato da minori investimenti sociali, strutture amministrative più deboli e un ruolo meno incisivo delle organizzazioni popolari. La specificità del Kèrala, dunque, non è solo statistica, ma politica: l'orientamento redistributivo di lungo periodo, l'attenzione ai diritti sociali, il ruolo delle lotte contadine e operaie, la diffusione dell'istruzione femminile e la cultura della pianificazione partecipata creano un ecosistema istituzionale che riduce drasticamente la probabilità che nuclei estremamente poveri sfuggano a ogni rete.
Tuttavia, vogliamo comunque sottolineare come il carattere "storico" della dichiarazione di eradicazione della povertà estrema non sia esente da critiche. Diversi economisti e attori sociali hanno contestato l'uso del termine "eradicazione", sottolineando la fragilità di famiglie che, pur sollevate sopra una soglia minima, restano esposte a shock sanitari, perdita del reddito, crisi climatiche o esclusione sociale. Alcune analisi giornalistiche e accademiche hanno evidenziato possibili sottostime delle comunità tribali e dalit nella lista degli "estremamente poveri", nonché il rischio che la disponibilità di una tessera per il razionamento o di un sussidio parziale porti a escludere soggetti tuttora vulnerabili. Dal canto suo, il governo ha risposto lanciando una fase EPEP 2.0 per intercettare i casi rimasti fuori e istituzionalizzando il monitoraggio continuo da parte degli enti locali. In termini analitici, più che una conclusione definitiva, l'"eradicazione" andrebbe letta come l'impegno a non lasciare nessuno al di sotto di un livello minimo garantito, attraverso una rete permanente di interventi personalizzati.
Inserito in questa prospettiva, il modello Kèrala presenta affinità e divergenze significative con l'esperienza cinese di eliminazione della povertà assoluta. La Repubblica Popolare Cinese ha annunciato nel 2021 la completa eliminazione della povertà estrema rurale secondo la soglia nazionale, dopo avere sollevato quasi 99 milioni di persone dall'indigenza negli anni precedenti, attraverso una strategia di "alleviamento mirato" che combinava identificazione puntuale dei nuclei poveri, responsabilità diretta dei quadri del Partito Comunista Cinese, trasferimenti fiscali massicci, investimenti infrastrutturali e rilocalizzazione di intere comunità. Le analogie con il Kèrala sono evidenti su tre piani: la centralità di una forza politica organizzata che assume la riduzione della povertà come obiettivo strategico; l'uso di strumenti granulari di identificazione dei beneficiari; la costruzione di un discorso politico che lega il successo sociale alla legittimità del progetto socialista.
Le differenze sono però altrettanto importanti. In primo luogo, la scala: l'esperienza cinese riguarda centinaia di milioni di persone e intere regioni interne, con una capacità fiscale e amministrativa statale incomparabilmente superiore. Il Kèrala opera come Stato federato con margini vincolati dalle politiche del governo centrale indiano e da un quadro macroeconomico segnato da vincoli finanziari più severi. In secondo luogo, il meccanismo istituzionale: la Cina ha fatto leva su una struttura di partito-stato centralizzata e gerarchica, mentre il Kèrala valorizza forme di democrazia locale e partecipazione dal basso, in cui panchayat e assemblee popolari giocano un ruolo essenziale. In terzo luogo, la definizione tecnica di povertà estrema: i parametri nazionali cinesi e quelli internazionali non coincidono perfettamente, così come il Kèrala adotta una nozione "multidimensionale" e situata di povertà estrema, più ampia del mero riferimento monetario, ma al tempo stesso esposta a discrezionalità. Questo dimostra la necessità di costruire standard condivisi di misurazione che consentano di valutare i risultati senza annacquare la dimensione politica dei processi.
Il confronto con gli altri Stati indiani conferma che il successo del Kèrala non può essere ridotto a un'anomalia statistica o culturale. Esso segnala piuttosto il potenziale di politiche redistributive coerenti, dell'investimento in capitale umano e dell'intreccio tra mobilitazione sociale e capacità amministrativa. Laddove la povertà resta elevata, non mancano solo risorse finanziarie, ma soprattutto continuità di visione, infrastrutture pubbliche e dispositivi di partecipazione capaci di individuare e accompagnare i nuclei più marginalizzati. In questo senso, l'esperienza del Kèrala dialoga con quella cinese e, in parte, con i risultati di altri Paesi socialisti asiatici come il Vietnam, indicando che modelli di sviluppo guidati da un forte settore pubblico, pianificazione sociale e organizzazione politica possono produrre risultati superiori rispetto alle ricette neoliberali centrali sul trickle-down.
Da un punto di vista geopolitico e teorico, infine, il caso del Kèrala offre al movimento comunista e alla sinistra globale un esempio contemporaneo e verificabile di lotta alla povertà condotta non come politica residuale, ma come asse costitutivo di un progetto di trasformazione sociale. Questo ha un valore discorsivo nel confronto con le narrazioni dominanti secondo cui il mercato, da solo, sarebbe la via maestra allo sviluppo. Inoltre, dimostra che in un contesto federale, anche con un governo centrale ideologicamente ostile o distante, è possibile sperimentare forme avanzate di welfare universale e mirato, purché esista una combinazione di volontà politica, radicamento sociale e capacità amministrativa.
A nostro modo di vedere, dunque, il "modello Kèrala" di eradicazione della povertà estrema va letto come un laboratorio di socialismo subnazionale in un paese segnato da disuguaglianze profonde e da un crescente spostamento verso politiche pro-mercato a livello centrale. La combinazione di riforme storiche, reti comunitarie, pianificazione partecipata e interventi mirati ha prodotto risultati che, pur contestati in alcuni dettagli, segnano un salto di qualità nel garantire un minimo di dignità materiale ai settori più vulnerabili. Il parallelo con l'esperienza cinese mostra che, pur attraverso vie istituzionali differenti, la scelta di fare della lotta alla povertà un obiettivo politico prioritario, sostenuto da strutture organizzate e strumenti di governo efficaci, resta uno dei terreni su cui i progetti socialisti contemporanei misurano la propria legittimità. La sfida che si apre ora per il Kèrala è trasformare il successo dichiarato in un impegno permanente di prevenzione delle ricadute, di allargamento della cittadinanza sociale e di ispirazione per altri contesti, dentro e fuori l'India, dove la povertà non è una fatalità, ma il prodotto storico di rapporti di produzione e di potere che possono essere cambiati.